Quando tutto si fa lontano: saper ascoltare le proprie emozioni e la propria sofferenza. Un riflessione da “La Quiete” di F. Holderlin

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Si può avere una storia dolorosa, sia attuale sia nella memoria.
Trovarsi a ripercorrere tappe complicate della propria esistenza. Momenti difficili fatti di confusione, di dolore e di abbandoni.
Quel che scrive Holderlin è il racconto di fatti tragici, che non raramente possono accadere nella vita di ognuno di noi, con significati molto diversi e implicazioni profondamente personali.

Si possono attraversare momenti di grande confusione, in cui non si riesce a comprendere pienamente cosa ci sta accadendo, o non capire il mondo che ci circonda.
Gli altri si muovono attorno a noi, come se non ci vedessero, come se non volessero accogliere alcune nostre parti. Elementi di fragilità che non trovano cittadinanza alcuna.

Allora la sofferenza diviene qualcosa di estremamente privato, alimentandosi e amplificandosi con una dolorosa solitudine. Holderlin non a caso parla di “terre straniere” in cui non è possibile portare le proprie lacrime.
Sono i momenti in cui abbiamo la sensazione di essere costretti ad allontanarci da noi stessi, a separarci da alcune nostre parti per poter far parte del mondo. Ma il costo è altissimo. Il malessere profondo.

Dover sopportare alcune separazioni, alcuni allontanamenti o alcuni lutti, possono portarci ad un dolore che se non trova ponti, per arrivare all’ascolto dell’altro, si trasformano in macigni pesantissimi. Trasformando già difficili esperienze in vere e proprie catastrofi.

Davanti a tutto questo. Davanti al dolore che la vita inevitabilmente ci propone, il Poeta narra la possibilità di una via d’aiuto.
Il ritorno a se stessi.
Ci rammenta il monito, quando tutto si fa lontano, a ritornare al proprio nucleo più intimo. La propria essenza.
Ripartire da quei luoghi interiori in cui si nasconde l’Io più autentico. Chi veramente siamo nel profondo.
Quali sono i nostri valori, i nostri bisogni, i nostri desideri e la nostra capacità di essere nel mondo.
Porsi nella quiete dell’ascolto.

Recuperare il giusto tempo, fermandosi rispetto alla frenesia di un mondo che ci provoca dolore e nel contempo ci chiede di superare le prove a grande velocità.
Fermarsi nel silenzio, che diventa ascolto autentico di Sé, delle proprie emozioni, che ci permette di comprendere quello che veramente stiamo provando, senza farci fraintendere con le emozioni socialmente accettate e accettabili.

È il valore egli affetti più personali e privati, perché ogni emozione è del singolo con specifiche sfumature, che possono essere comunicate e condivise, ma che restano personali. Uniche e irripetibili. Speciali
È in questo ritrovare la propria unicità che si può affrontare con meno solitudine i dolori che il mondo ci offre. Sentendoci un po’ meno soli, perché siamo stati capaci di non abbandonare noi stessi.
Almeno noi non lo faremo, anche se altri lo faranno.

Francesco Urbani
urbani@casadinchiostro.it
www.francescourbani.it

Immagine: Natalia Drepina

Qui il testo “La Quiete” di Friedrich Holderlin – Tratta da i “Meridiani Mondadori”

Te che deliziasti il mio cuore di fanciullo,
Che da fanciullo già piangeva di lacrime,
Che mi allontanasti dal pianto degli stolti
Per plasmarmi meglio nel tuo grembo materno,

Tuo, soave amica di ogni amore!
Tuo, fedele compagna! sia il mio canto!
Fedele mi sei stata nella tempesta e nel sole,
Restami fedele quando tutto mi avrà abbandonato.

Quella pace – quella celeste delizia –
Non sapevo cosa mi stesse accadendo,
Quando a sera il sole con quieto splendore
A me giungeva penetrando il bosco oscuro –

Solo tu, tu sola hai riversato
Quella pace nei sensi del fanciullo,
Da te scaturiva quella delizia celeste,
Augusta quiete che dispensi gioia!

Fu tua la lacrima nel bosco
Sulla piantina di fragole colte
Mi sfuggì – con te andavo nel chiaro di luna,
Ritornava all’amata casa dei genitori.

Da lontano vedevo già guizzare le candele,
Era già ora di cena – non mi affrettavo!
Sorridendo in silenzio ascoltavo i lamenti del cimitero,
Il cavallo a tre zampe sul patibolo.

Quando infine arrivavo impolverato,
Dividevo subito la vizza piantina di fragole,
Vantandomi dell’aspra fatica per coglierla,
Coi fratelli che mi ringraziavano;

E poi in fretta mangiavo della cena
Le patate avanzate per me,
Sazio mi rifugiavo nella quiete
Al riparo dalle celie dei fratelli.

Oh! nella quiete della mia piccola stanza
Allora mi sentivo pervaso dal benessere,
Il guscio della notte era per me un tempio,
Quando il campanile rintoccava solitario.

Tutto taceva nel sonno, solo io vegliavo;
Infine la quiete mi cullava,
E sognavo dei boschetti con le fragole,
Di camminare nella quieta luce della luna.

Quando fui strappato ai miei,
All’amata casa dei genitori,
Errando tra stranieri, dove più non potevo
Piangere, nel confuso intrico del mondo;

Come avesti cura del misero ragazzo,
Cara, con tenerezza materna,
Affaticato nell’intrico del mondo,
Nella solitudine amata e malinconica.

Quando il sangue della giovinezza, ora più focoso,
Mi spinse verso cuori più ardenti e pieni;
Come hai taciuto i dolori impetuosi
Irrobustendo il debole con nuovo coraggio.

Ora nella tua capanna sovente ascolto
Il mio Ossian irruente nella battaglia,
Sovente mi libro circondato da splendenti serafini
Verso il cielo, con Klopstock, cantore di Dio.

Dio! e quando lungo quiete siepi ombrose
La mia fanciulla si rifugia tra le mie braccia,
E il nocciolo, per celare i suoi amanti,
Con premura ci avvolge tra i verdi rami –

Quando nella valle benedetta
Tutto è così quieto, quieto,
E lacrime di gioia, chiare nel raggio della sera,
La mia fanciulla in silenzio mi terge dalla gota –

O quando tra i pacifici campi
Il mio amico del cuore mi accompagna,
E imitare il nobile giovane
E’ l’unico pensiero che ho nell’anima –

E noi nei piccoli affanni
Ci guardiamo negli occhi con premura,
Quando così parsimoniose le parole
E così lacere escono dalle gravi labbra.

Sono belle, belle le quiete gioie
Che il chiasso selvaggio degli stolti non conosce,
Ancor più belli i quieti dolori devoti,
Quando la pia lacrima scivola dall’occhio.

Per questo, quando un giorno l’uomo sarà cinto da tempeste,
E non lo animerà più la giovinezza,
Assediato da nere e minacciose nuvole,
La preoccupazione gli avrà scavato solchi nella fronte;

Strappalo allora dal tumulto
Avvolgilo nelle tue ombre,
Nelle tue ombre, amata! abita il cielo,
Tra le tempeste lì vi sarà pace.

E quando un giorno dopo mille ore fosche
Si chinerà il mio grigio capo verso terra,
E il cuore sarà spossato per mille ferite
E il peso della vita avrà curvato la debole schiena:

Allora conducimi con il tuo bastone –
Curvo voglio attenderlo,
Finché nella tomba, benvenuta e colma di pace
Taccia tutto il chiasso e la tempesta degli stolti.

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