Qualità umane per una conoscenza autentica dell’altro

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L’altro esiste perché vi è un occhio che lo guarda: è questo uno dei concetti chiave quando si parla di conoscenza.
Se così non fosse si verrebbe a creare un vuoto, in cui ovviamente l’altro esiste, ma non per noi.
Proprio per essere tale, la conoscenza non può mai limitarsi ad essere una semplice acquisizione di informazioni, perché questo atteggiamento non farebbe altro che alimentare le distanze. Infatti l’altro ne risulterebbe trattato come oggetto, e non come soggetto.
Questa forma di “apparente” conoscenza, altro non è che uno dei tanti modi in cui si cerca soltanto chi è “uguale”, evitando l’altro in qualità di “diverso” (che resta semplice e innoquo oggetto di studio e osservazione. Un diverso che non mette paura perché non ci può “toccare”).

L’incontro autentico con l’altro è invece sempre un evento di trasformazione dei partecipanti, e conseguentemente dell’intero mondo, a causa del fatto che la conoscenza è dinamica e non statica.
E’ nel rischio dell’incerto che risiede questo passaggio, nel saper vivere la paura (e l’attrazione) del non-conosciuto.

In questo discorso un elemento che possiede particolare importanza è il tempo, perché mentre l’osservare/essere-informati vive un immobile presente, la conoscenza si sviluppa come lungo processo che procede verso il futuro, coinvolgendo il passato e la memoria.
In un percorso di continuità che è antitesi alla frammentazione del tempo efficiente contemporaneo.

La conoscenza, proprio per le sue qualità di incertezza, va oltre l’esigenza del “risultato” e dell’efficienza, perché ha bisogno di spazi insaturi.
Spazi che non siano inquinati da facili significati, i quali invece di aprire prospettive, ingabbiano pensieri. Chiudono qualsiasi possibilità.

C’è inoltre un terreno che non deve mai essere dimenticato, ed è quello riguardante la differenza esistente tra il “numerico”, che è un campo “qualitativo-efficiente” il quale si muove solo attorno all’uguale (cercando similarità), e il “qualitativo” che invece è alla ricerca continua delle differenze, facendo dell’inafferabile l’elemento di comprensione e valorizzazione dell’altro.

La conoscenza, quindi, non cerca soluzioni (quindi è anti-efficientismo), ma trasforma (propone mutamenti che generano dubbi e profondità).
È proprio la differenza, e non l’uguaglianza, a donare vitalità alle cose, amplificando desideri ed enigmi che sono invece inibiti da una società “trasparente” (dove tutto viene reso visibile, affinchè si ceda alla facile omologazione).

Il non conosciuto, e solo esso, racconta e attrae, facendo emergere nuove ricchezze linguistiche e comunicative. È il “gioco”: curiosità, libertà, paura, eccitazione, rischio, trasgressione.
Quindi dove la conoscenza non c’è, ma vi è solo “vicinanza all’uguale”, tutto ciò che si sa dell’altro (e può anche essere quantitativamente molto) si riduce ad un vuoto senza densità.
Non si può desiderare di conoscere chi è uguale a noi, perché solo la differenza è un “movimento verso”, che apre alla non uguaglianza (anche in riferimento a noi stessi, che scopriamo in questo processo nuovi aspetti di noi, con altre caratteristiche e potenzialità).

La conoscenza, quando si allontana dalla tranquillizzante ricerca dell’uguale, diviene un affascinante relazionarsi alle “anomalie”, dove si scopre la propria (e altrui) autenticità ed essenza.

Francesco Urbani
www.francescourbani.it
urbani@casadinchiostro.it

Immagine tratta dal film: Will Hunting, di Gus Van Sant, 1997
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