“Tutti sappiamo che un dipinto e un ragionamento sono due cose bene diverse, e che non basta il migliore dei ragionamenti per produrre un buon dipinto. Di conseguenza, quanto due pittore si innamora dei propri pensieri al punto di permettere che la sua visione ne venga sopraffatta la sua immaginazione pittorica sarà fiaccata da idee che lo distraggono dall’arte della pittura. È corretto, quindi, dire che la fuga verso la conoscenza è una debolezza artistica, perché sostituisce l’immaginazione con l’intelletto. La fuga dalla conoscenza, tuttavia, è anch’essa una debolezza: presuppone che l’immaginazione dell’artista manchi del vigore necessario per reagire positivamente sotto la pressione del pensiero.” Sono le storiche parole di Edgar Wind in “Arte e Anarchia” pubblicato da Adelphi nel 1968.
Parlano di arte, ma in realtà parlano di tutti noi, anche non artisti. Ci raccontano quanto sia difficile muoversi tra la conoscenza e quello che sentiamo.
Mi ricorda il lavoro fatto e da riprendere in “Scrivere il Silenzio” laboratorio ormai iniziato quasi 10 anni fa, in cui il lavoro principale era comprendere il silenzio dentro di Sé per poi arrivare a comprendere il silenzio dell’altro e soprattutto il silenzio della “scena”. Quello che chiameremmo il “noi centrale”.
Noi comprendiamo la realtà, la guardiamo e la osserviamo e ci muoviamo nel mondo in base alle informazioni che arrivano dall’esterno. Questo però, a volte, ci impedisce di comprendere e ascoltare quello che abbiamo dentro di noi. Ma soprattutto il rischio più grande è quello di non interpretare la realtà molto bene.
Per fare un esempio è come se ci rapportassimo ad una persona soltanto e unicamente in base a ciò che essa ci dice, quindi solo mediante il linguaggio verbale, senza dar ascolto a tutta la comunicazione nel suo complesso, e soprattutto senza ascoltare le emozioni che l’altro (con il suo dire, con il suo fare e con il suo essere) ci suscita.
Sono proprio queste emozioni che dobbiamo imparare ad ascoltare, e con ciò non dico che debbano essere seguite pedissequamente. Ovvero se proviamo fastidio verso qualcuno non è detto che dobbiamo allontanarcene (potremmo aver fastidio perché è una persona sgradevole, o perché ci racconta qualcosa di noi che non vogliamo ascoltare).
In questo senso dobbiamo fare una grande palestra di ascolto di noi stessi. Un grande lavoro di consapevolezza per cui per conoscere la realtà, e muoversi in essa, dobbiamo innanzitutto partire da noi stessi, non in modo narcisistico ed egocentrico, ma bensì con l’umiltà di saper dire “non mi conosco”.
Ed è solo camminando dentro di noi che sapremmo camminare nel mondo assieme ad un altro che sia in armonia con noi.
Francesco Urbani
Psicologo-Psicoterapeuta-Supervisore
Cerchi nella notte – Il libro
urbani@casadinchiostro.it
www.francescourbani.it
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Cosa suscita in me, che immagini mi evoca? Saper distinguere le persone semplicemente sgradevoli da quelle che, con il loro modo di essere, stimolano in noi sensazioni, emozioni antiche, come fossero un odore che in un attimo ci riporta indietro nel tempo. Senza però essere più dannoso per noi ma tutt’al più fastidioso poiché in grado di riattivare il collegamento ad una sofferenza di cui non è responsabile. Significa avere un potere: poter scegliere se approfittare dell’occasione per guardare dentro a quella sofferenza o se allontanarsi per proteggersi. L’Altro come opportunità di conoscenza di sé e occasione per strutturarsi, anziché minaccia alla nostra integrità. Tutto un altro vivere.