Nasceva oggi uno dei più grandi intellettuali del 900. Pier Paolo Pasolini.
Poeta, scrittore, saggista, regista.
Impossibile definire questa figura così ricca, che qualsiasi “etichetta” non farebbe altro che ridurre la complessità e la vastità di un personaggio così enorme.
Innumerevoli i suoi contributi che ancor oggi sono fonte di stimolo, ricerca e riflessione profonda. Lasciando in ogni lettore, lo sgomento di una verità introvabile ma che sempre, e costantemente, va ricercata.
Vogliamo ricordarlo con questa poesia.
“Le ceneri di Gramsci”
I
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbagliacon cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno veloalle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci apparetra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra manodelineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umidogiardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noiapatrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopitonel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiudela sua giornata, mentre intorno spiove.
II
Tra i due mondi, la tregua, in cui non
siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramoe nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fannoche mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, cortee imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazionipiù grandi; ronzano, quasi mai
scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparseinceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimastiuomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzoa tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dàquesti magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la serarasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofondal’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spentatrepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasudaaltro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
– familiari da latitudini eorizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o comesmeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
invocazioni…III
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estraneimorti: Le ceneri di Gramsci… Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzialla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiatoe anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posala tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sortenostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il semenon ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominioe la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimessorione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrinedal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranitoè il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accadedi amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempol’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
– con te – il mondo, oggetto non apparedi rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussistoperché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseriasprezzante e perso – per un oscuro
scandalo
della coscienza…IV
Lo scandalo del contraddirmi,
dell’essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel caloredegli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religionela sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originariadell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro piùio non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi battoogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltantedei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la
storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:ma a che serve la luce?
V
Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale…
altri vizi esso ha, altro è il nomee la fatalità del suo peccare…
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e qualeoggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessunadelle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce
all’inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitichele manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza… e ironico ardoreliberale… e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infime minuziein cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia… Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel pettoil senso di una vita che sia oblio
accorante, violento… Ah come
capisco, muto nel fradicio brusiodel vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suonaShelley… Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordicovilleggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, esteticae puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dormecol membro gonfio tra gli stracci un
sogno
goethiano, il giovincello ciociaro…
Nella Maremma, scuri, di stupende fogned’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panicodi fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli oliidel mare… E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezzane è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nomedel compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,in luride spiaggette…
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
VIMe ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cereache al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccendedi una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fiocoe assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei gramicaseggiati dove si consuma l’infido
ed espansivo dono dell’esistenza –
quella vita non è che un brivido;corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza– forse più lieta della vita – come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passioneche per l’operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l’umile corruzione. Quanto più è vano– in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace –
ogni ideale, meglio è manifestala stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando quanel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine…Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grandelurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina… Manca poco alla cena;brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d’operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d’immondizia
nell’ombra, rintanate zoccoletteche aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzoa palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardentidi sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festavespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellaccie i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersieccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce… Ma io, con il cuore coscientedi chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra è finita?